giovedì 20 dicembre 2007

Sul quaderno XXII “Americanismo e Fordismo” di Antonio Gramsci

Di sicuro ai più scettici sembrerà inusuale affrontare un tema delicato e odierno come quello del lavoro rispolverando degli appunti di un quaderno scritti la bellezza di settantatre anni fa nella cella grigia e buia di un carcere. Eppure all’interno di tali appunti è possibile riscontrare acute analisi che ancora oggi possono far scuola e che forse possono fungere da presupposto per uno sguardo critico su come oggi sia diventato il mondo del lavoro.

Il quaderno sull’americanismo e fordismo analizza quel sistema produttivo che nella prima metà del secolo passato prese piede negli Stati Uniti d’America e che nel corso dei decenni influenzò in maniera tangibile anche il sistema produttivo europeo, Italia inclusa.

Per prima cosa va precisato come nelle riflessioni gramsciane l’analisi della struttura economica fosse strettamente correlata alle sovrastrutture e come quest’ultime fossero in grado di influenzare o quanto meno rafforzare la prima.

Per fare un esempio, Gramsci nel paragrafo sulla questione sessuale dimostra come dietro l’apparente moralismo e puritanesimo delle leggi e degli industriali, si nascondesse l’interesse di questi ultimi a render la vita degli operai più sobria e di conseguenza funzionale al sistema produttivo vigente: «[…] i nuovi metodi di lavoro […] domandano una rigida disciplina degli istinti sessuali, cioè un rafforzamento della famiglia in senso largo, della regolamentazione e stabilità dei rapporti sessuali». In questo ambito rientra anche il proibizionismo: «[…] chi lavora a salario, con un orario fisso, non ha tempo da dedicare alla ricerca dell’alcool, non ha tempo da dedicare allo sport di eludere le leggi».

Tutti questi aspetti, secondo il pensatore sardo, erano funzionali alla razionalizzazione del lavoro; ovvero erano finalizzati a sviluppare nel lavoratore gli atteggiamenti macchinali ed automatici, a spezzare il nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza al fine di ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico-macchinale. In sostanza la qualifica del lavoratore era commisurata dal suo disinteressamento intellettuale, cioè dal suo meccanizzarsi.

L’obiettivo ultimo degli industriali era quello di rendere un lavoratore un “gorilla ammaestrato”, non considerando il fatto che la completa meccanizzazione del lavoratore, rendendo l’atto lavorativo equiparabile al gesto fisico che si compie nell’atto di camminare, comportava allo stesso tempo la piena libertà intellettuale del lavoratore, rendeva il cervello sgombero da altre occupazioni; tale libertà avrebbe portato il lavoratore a constatare il fatto di non avere soddisfazioni immediate dal lavoro e il volerlo ridurre ad un gorilla ammaestrato l’avrebbe portato a “pensieri poco conformisti”.

Inoltre, l’adattamento ai nuovi metodi di produzione, si sarebbe dovuto ottenere non solo con la coercizione, ma anche attraverso la persuasione; è in questa dinamica che rientrano gli alti salari.

Gramsci concludeva affermando come i gruppi sociali generati da questo nuovo ordine produttivo sarebbero stati capaci di gettare le basi per un reale cambiamento: «Non è dai gruppi sociali “condannati” dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi ”devono” trovare il sistema di vita “originale” e non di marca americana, per far diventare “libertà” ciò che oggi è “necessità”».


Andrea Coghene

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