mercoledì 25 gennaio 2012

Libera, pubblica, di qualità e di massa...la lotta riprende!

E’ trascorso poco più di un anno da quando il Parlamento più screditato della storia della Repubblica approvava, in via definitiva, la riforma dell’università proposta dall’allora ministro Gelmini. Tale riforma si innestava su un contesto di grave crisi finanziaria degli Atenei, determinato dai tagli scellerati della l. 133/2008 fortemente contrastati dalla prima mobilitazione larga contro il governo Berlusconi, quando tutti, ad eccezione degli studenti e dei metalmeccanici sembravano narcotizzati dal nuovo disegno di dominio di un potere marcescente, che pure incarnava il ventre molle dell’Italia.

Gli effetti nefasti di questa miscela esplosiva, che dalle piazze di tutta Italia preannunciavamo in quelle grandi giornate di lotta e di speranze dell’autunno scorso, oggi si manifestano in tutta la loro drammaticità. Moltissime Università con i bilanci in rosso per fronteggiare le spese di gestione sono state costrette ad alzare le tasse agli studenti ed oggi rischiano di vedersi condannate alla restituzione delle stesse poiché superano il limite del 20% fissato dalla legge nel rapporto tra fondo di finanziamento ordinario destinato al singolo ateneo e tasse universitarie, circostanza già verificatasi con la condanna dell’Università di Pavia ad opera del TAR di Milano. Ad oggi, sono 33 le università “fuorilegge, il 55% degli atenei statali italiani, in pratica, ha superato tale limite. Si va dal 36,6 per cento di Urbino, seguita a ruota da Bergamo (36,5) e da Venezia (34,1) giù fino agli sforamenti minimi di Perugia (20,2), Firenze (20,4), Napoli Federico II e Camerino (20,7) e il Politecnico di Torino (l’ateneo del neo ministro dell’Istruzione Francesco Profumo è al 20,9 per cento).In realtà, guardando ai numeri complessivi, fuorilegge è il sistema stesso, perché le università statali chiedono ai propri iscritti due miliardi all’anno, cioè il 30 per cento del contributo statale. Nonostante il problema sia stato sollevato più volte, il precedente governo non ha mai cercato di risolverlo. E come spesso accade, dove non arriva la politica ci pensa la magistratura, stavolta quella amministrativa. Quanto è accaduto all’ateneo lombardo genera “un gran rumore” se si pensa che gli iscritti ai 33 atenei coinvolti sono circa un milione. E se Pavia dovrà restituire il 3 per cento dell’ammontare delle tasse incassate nel 2009/2010, in altri atenei la cifra potrebbe salire fino al 15 per cento. E’ del tutto evidente che qualora i ricorsi degli studenti continuassero in tutti gli Atenei non in regola, si determinerebbe la paralisi del sistema universitario italiano. Ma, accanto a ciò, un altro sintomo emblematico che descrive la condizione dell’Università italiana è quanto accaduto qualche giorno fa alla Sapienza, precisamente nella facoltà di giurisprudenza: dopo ripetute lezioni svoltesi con un numero di studenti pari al doppio della capienza delle aule, alcune lezioni sono state sospese per problemi di sicurezza. Ciò ha portato ad una sommossa spontanea degli studenti, che si vedevano privati del diritto sacrosanto di poter seguire le lezioni, anche in considerazione del fatto che molti di essi, fuorisede, sostengono costi notevoli per vivere a Roma e poter frequentare i corsi di lezione. Occorre soffermarsi un istante su questo episodio perché potrebbe rappresentare quell’accadimento in grado di innestare una reazione a catena e far esplodere i tanti malcontenti presenti negli Atenei. La facoltà di giurisprudenza in questione, fucina del più illustri giuristi italiani, si è caratterizzata da sempre per l’altissimo profilo dei suoi docenti, che proprio in ragione di ciò arrivavano spesso ad insegnarvi verso la fine della carriera, quindi in età avanzata. Negli ultimi due anni più della metà dei docenti della facoltà è andata in pensione per limiti di età, ma nessuno di essi è stato sostituito a causa del blocco del turn over imposto dalla Gelmini e dal “rigore finanziario”: il tutto ha determinato la riduzione dei canali, con la conseguenza che, se fino a tre anni fa vi erano tre docenti di diritto penale, oggi ve ne è uno soltanto che dovrà gestire i circa tremila studenti che devono seguire i corsi e sostenere l’esame: ciò è evidentemente insostenibile. Seguire lezioni in queste condizioni è impossibile oltreché inutile, tanto più se si paragona tale situazione alle classi da cinquanta studenti della Bocconi o della Cattolica. Evidentemente, solo chi può spendere diecimila euro di rette annue ha diritto di seguire le lezioni con tutti gli agi del caso! Senza volersi soffermare su alcuni paradossi, quale, ad esempio, quello per cui un docente di storia del diritto italiano, per consentire alla facoltà di poter funzionare, svolge i corsi di diritto civile, insegnamento assai diverso dal suo settore disciplinare. Tale situazione è, peraltro, destinata a peggiorare, visto che nel prossimo anno accademico andranno in pensione tutti i docenti di procedura civile: stante il blocco del turn over, e a meno che non si voglia chiamare un astrofisico ad insegnare la materia, l’anno prossimo gli studenti di giurisprudenza non potranno apprendere il funzionamento del processo civile. Siamo al cospetto di una lenta agonia, che, salvo un netto cambio di rotta, porterà alla morte di una delle facoltà più prestigiose dell’università italiana, ma tale vicenda è, al tempo stesso, paradigmatica di quella che potrebbe essere la sorte di tutto il comparto dell’istruzione pubblica italiana, senza alcun riguardo per il prestigio e la qualità, a dispetto della retorica del merito. Alla luce di queste situazioni, emerge in modo cristallino il disegno che ha ispirato la riforma Gelmini: rendere impossibile il funzionamento dell’università pubblica, in modo da scoraggiare, dapprima, chi non può permettersi la Bocconi dall’iscriversi ad una Università pubblica e , poi, iniziare una campagna martellante sull’inutilità della stessa e decretarne la morte. E’ l’idea che la funzione dell’istruzione superiore sia quella di formare e perpetuare una classe dirigente, che la cultura e l’istruzione siano appannaggio di pochi, di chi deve assumere ruoli di responsabilità. E’ il tentativo di tornare ad una cultura quale clava da brandire contro gli oppressi, la cultura quale strumento di controllo sociale e non di emancipazione e di riscatto. E questo disegno eversivo oggi è accolto da tutti, come dimostra il fatto che la riforma Gelmini è considerata unanimemente, anche da quelle forze parlamentari che durante il movimento si opposero ad essa, come un provvedimento utile alla crescita, uno dei pochi dell’ultimo governo ad aver ricevuto il plauso della BCE e di quanti prima ci hanno condotti nelle secche di una grave crisi ed oggi si ergono a Soloni e vorrebbero indicarci le vie di uscita dalla stessa. Quanto avviene in materia di Università dà il senso di cosa questi analisti del giorno dopo con soluzioni ineluttabili sempre pronte, intendano per crescita, una crescita a carico di tutti ed a vantaggio dei pochi noti. In quest’ottica si colloca il furore ideologico sulle liberalizzazioni, cioè privatizzazioni selvagge ed ulteriore deregolamentazione del mercato: come se, la crisi che si abbatte sulle nostre vite e sul nostro futuro fosse stata generata dalle troppe regole che imbrigliano il mercato e non dalla manina invisibile che tutto dovrebbe sistemare, ma che poi si traduce, in concreto, in quello che un grande rivoluzionario definiva “libera volpe in libero pollaio”. Non a caso, il governo Monti continua a ripetere che l’attuazione della riforma Gelmini va implementata; di più, la stessa va completata del tassello mancante, l’abolizione del valore legale del titolo di studio: da questa riforma passa la inevitabile e salvifica liberalizzazione dell’istruzione pubblica. Ma cosa si intende per valore legale del titolo di studi? Si tratta della certificazione da parte delle istituzioni competenti del completamento dei vari stadi del percorso formativo, del raggiungimento di un traguardo. Pare paradossale che in questo momento in cui viene enfatizzata la necessità di certificare qualsiasi prodotto e di rendere evidente tutta la filiera produttiva, proprio per quanto riguarda la formazione, l’Università debba rinunciare alla certificazione. E chi se non le Università dovrebbe certificare il completamento e la qualità del percorso formativo? Forse il mercato? Forse nuovi enti certificatori privati di cui si ignora la qualità e la correttezza e che ricordano da vicino le tanto esaltate, prima, e vituperate, poi, agenzie di rating? E chi dovrebbe gestirle? Forse Confidustria, che spinge notevolmente per l’abolizione del valore legale della laurea e che ha già alcune sue Università? E non ci sarebbe un palese conflitto di interessi? Ad ogni modo i crociati dell’abolizione del valore legale del titolo di studio affermano che oggi il titolo di studio non è più garanzia di qualità della preparazione. Ciò potrebbe anche essere vero, ma la soluzione a tale problema non è abolire il valore legale, quanto piuttosto valutare meglio chi fornisce questo titolo. Ma, evidentemente, è proprio qui che si cela l’inganno: è fuor di dubbio, infatti, che la maggior parte delle criticità sarebbero riscontrate in quelle università private che sono dei veri e propri laureifici, ma che, con l’attuale sistema, prima di poter conferire il titolo, devono conseguire un riconoscimento, una cd. parificazione da parte del Miur. Con l’abolizione del valore legale del titolo di studio, invece, una qualsiasi università potrebbe emettere titoli di studio senza alcun controllo e sarebbe, poi, il mercato a esprimere giudizi sul valore del titolo medesimo. In altri termini, un’impresa fonda una sua università, chiede una retta elevatissima per l’iscrizione, quindi assegna massimo valore al titolo conseguito presso l’ateneo di sua proprietà ed assume solo i laureati di quell’università: non vi è modo migliore per consentire alle imprese di fare profitto anche sul sapere, d’altro canto liberalizzare vuol dire, appunto, aprire nuovi segmenti al profitto. Senza considerare che, in tal modo la formazione sarebbe del tutto subordinata alle esigenze del mercato e perderebbe il suo fine ultimo: la formazione del cittadino consapevole. Consentire alle imprese, poi, di assegnare punteggi al titolo di studio anche per l’accesso alle professioni o alla p.a. significherebbe consegnare loro un monopolio per cui avrebbe accesso a tali lavori solo chi fosse nelle condizioni di acquistare una laurea in queste università, con buona pace del merito e dell’equità: in sostanza si acquisterebbe non solo il titolo di studio ma anche il posto di lavoro! La proposta di abolire il valore legale del titolo di studi ha in realtà un altro obiettivo: limitare la spendibilità del titolo nel mercato del lavoro. La spendibilità non discende dal valore legale, che ne è solo un prerequisito, ma dalla forza dei contratti collettivi di lavoro. E’ nei contratti collettivi di lavoro che si stabilisce, in modi differenti nel tempo e secondo la composizione degli interessi contrapposti, quali requisiti debba possedere chi chiede di partecipare ad una selezione. Mai nessun titolo ha dato automaticamente accesso ad un posto di lavoro o ha definito l’inquadramento: questo dipende, sia nel settore privato sia nel pubblico, dai rapporti di forza del momento tra coloro che organizzano la domanda e coloro che organizzano l’offerta. E’ a questo punto chiaro il vero obiettivo: fare saltare la contrattazione collettiva. Quando si chiede l’abolizione del valore legale del titolo di studi si sta chiedendo di superare la contrattazione collettiva. Nel momento in cui non si dovesse più certificare la conclusione di un percorso formativo, relativamente omogeneo, ogni singolo lavoratore sarebbe lasciato alla mercé del mercato senza regole. A questo punto nove secoli di storia delle università e della scienza vengono abbandonati per costruire un modello del tutto estraneo alle nostre tradizioni, incompatibile con la restante parte dell’organizzazione sociale. Nel contempo un istituto quale la contrattazione collettiva, che ha segnato il secolo appena passato, permettendo di superare le forme più estreme di sfruttamento, viene abbattuto per riconsegnare i lavoratori all’alea del mercato. Tutto ciò si pone in estrema continuità con le strategie di Marchionne, con l’art. 8 della manovra di agosto e con le linee guida tracciate dal prossimo presidente di confindustria, Bombassei. E’ ora di tornare in piazza dunque, è ora di tornare ad animare gli atenei con assemblee e mobilitazione: l’occasione ci è offerta dalla Fiom, che l’undici febbraio scende in piazza per rivendicare il contratto collettivo e le libertà sindacali, ma scende in piazza con una piattaforma generale, che parla al paese, una piattaforma che indica una via diversa di uscita dalla crisi, una via che passa per l’occupazione, per la soluzione dell’emergenza salariale, per la lotta al precariato, per la difesa dei beni comuni, sempre più sotto assedio. E’ la classe operaia che ambisce a diventare “classe dirigente”. Di nuovo, come nel 2008 ed in tanti altri momenti della nostra storia, tocca agli operai ed agli studenti ridestare dal torpore quanti pensano che la ricetta Monti sia l’unica possibile. E’, dunque, ora di difendere le nostre vite ed i nostri diritti; è ora di tornare a credere che le sola forme della democrazia sostanziale sono la partecipazione e la lotta collettiva; è ora di una nuova resistenza per la Costituzione ; è l’ora di osare più democrazia!

Domenico Dursi
Resp. Naz. Formazione e Universitá FGCI

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